Il diritto del dipendente che assiste il congiunto disabile a scegliere la sede lavorativa
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Deve essere contemperato con le esigenze organizzative, economiche e produttive del datore
Redazione - RM - Pubblicata il 05/05/2008
Con sentenza del 27 marzo 2008, n. 7945, le sezioni unite civili della Suprema Corte di Cassazione hanno stabilito che il dipendente che presta al congiunto portatore di handicap assistenza (in base all’art. 33, comma 5, della L. n. 104 del 1992) non ha un diritto illimitato di scegliere una sede lavorativa vicino a casa in quanto tale diritto deve essere contemperato con le esigenze organizzative, economiche e produttive del datore di lavoro.
Per le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, infatti, il datore di lavoro che dimostri di aver subito una considerevole lesione dei suoi diritti può sospendere la posizione di vantaggio riconosciuta al dipendente che assiste il congiunto portatore di handicap.
Nel caso esaminato, le Sezioni Unite hanno così negato il risarcimento del danno esistenziale richiesto dalla lavoratrice che assisteva il coniuge disabile, ribadendo il concetto per cui il risarcimento non è automatico dopo una qualsiasi parziale e temporanea modificazione delle abitudini di vita del dipendente perché il danno non patrimoniale non è mai sottointeso, ma richiede e presuppone sempre l’onere della prova a carico del datore di lavoro.
Fatto e diritto
La moglie convivente di un portatore di handicap, nel momento dell'assegnazione delle sedi di lavoro, disposta a conclusione della procedura concorsuale indetta dal Ministero dell'Economia e delle Finanze-Dipartimento delle Dogane per un posto presso la Segreteria della Commissione provinciale tributaria, ha adito il Tribunale, rivendicando il diritto di lavorare a Lodi invece che a Bari.
Il Tribunale dichiarava il diritto della ricorrente e condannava il Ministero a rimborsare alla donna le spese sostenute a seguito della illegittima assegnazione presso la segreteria della Commissione di Lodi, liquidandole in complessive euro 3.904,33, oltre rivalutazione monetaria ed interessi, ma rigettava le altre istanze azionate dalla dipendente per il risarcimento del danno per disagio ed usura psico-fisica nonché alla vita di relazione, alla serenità familiare ed alla salute del coniuge e poneva a carico del Ministero le spese processuali sostenute dalla donna per la procedura cautelare ante causam e per il giudizio.
Contro tale sentenza, proponevano appello principale il Ministero e l'Agenzia delle Dogane ed incidentale la donna.
La Corte d'appello di Bari rigettava ambedue i reclami in quanto la giurisdizione apparteneva al giudice ordinario e, con riferimento alla domanda di risarcimento dei danni subiti per avere dovuto lavorare a Lodi invece che a Bari, confermava la decisione del primo giudice che aveva riconosciuto alla lavoratrice unicamente le spese per i viaggi “per le rette corrisposte in ragione della sua residenza nel luogo di lavoro, nonché gli esborsi affrontati per fare valere in giudizio un suo diritto ingiustamente leso”.
Quindi, la corte d’Appello non ha condiviso la richiesta di riconoscimento della donna del danno esistenziale perché per il danno biologico necessitava la prova specifica di alterazioni psico- fisiche pregiudizievoli alla salute del lavoratore, nel caso di specie mancante.
Avverso tale decisione, il Ministero e l'Agenzia delle Dogane hanno proposto ricorso per violazione delle norme e dei principi in materia di giurisdizione con riferimento all'art. 63 del D.Lgs. n. 165 del 2001 (art. 360 n. 1 c.p.c).
Per la ricorrente il giudice d'appello, nel rigettare il gravame da esso proposto, aveva errato nel qualificare la posizione di vantaggio ex art. 33 citato come un vero e proprio diritto soggettivo di scelta nella sede più vicina in capo al lavoratore-familiare del portatore di handicap ed ha ugualmente errato nel reputare che spettasse al datore di lavoro fornire la prova di un interesse organizzativo della pubblica amministrazione volto ad impedire l'esercizio del diritto del familiare del disabile a tale scelta.
Di contro il legislatore, nell'ambito della disciplina di cui alla «legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate» (legge n. 104 del 1992) ha introdotto il diritto di scelta prioritaria in sede concorsuale, ma lo ha fatto solamente in favore dei soggetti portatori di handicap vincitori di concorso, ed analogo diritto di scelta non ha inteso invece prevedere con l'art. 33, quinto comma, in favore dei dipendenti vincitori di concorso pubblico che assistono familiari entro il terzo grado portatori di handicap.
L'art. 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104 statuisce che il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.
Come ha osservato correttamente la Corte d'appello, la posizione di vantaggio ex art. 33 si presenta come un vero e proprio diritto soggettivo di scelta da parte del familiare-lavoratore che presta assistenza con continuità a persone che sono ad esse legate da uno stretto vincolo di parentela o di affinità.
La ratio di una siffatta posizione soggettiva va individuata nella tutela della salute psico-fisica del portatore di handicap nonché in un riconoscimento del valore della convivenza familiare come luogo naturale di solidarietà tra i suoi componenti.
La decisione della Corte di Cassazione
Per le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la citata disposizione non può, però, far ritenere che il diritto del genitore o del familiare lavoratore dell'handicappato di scegliere la sede più vicina al proprio domicilio e di non essere trasferito in altra sede senza il suo consenso sia un diritto assoluto o illimitato in quanto presuppone, oltre agli altri requisiti esplicitamente previsti dalla legge, la compatibilità con l'interesse comune e quindi il diritto del familiare-lavoratore deve bilanciarsi con altri interessi, che trovano anche essi una copertura costituzionale, sicché il riconoscimento del diritto del lavoratore- familiare può, a seconda delle situazioni fattuali a fronte delle quali si intenda farlo valere, cedere a rilevanti esigenze economiche, organizzative o produttive dell'impresa ,e per quanto riguarda i rapporti di lavoro pubblico.
La prova della sussistenza delle ragioni impeditive del diritto alla scelta delle sede fa carico poi, contrariamente a quanto sostenuto dal Ministero, sul datore di lavoro.
Per concludere, le Sezioni Unite hanno disposto che la sentenza impugnata andava confermata poiché applicava il principio di diritto che, ai sensi dell'art. 384, comma 1, c.p.c, va così enunciato: «Alla stregua dell'art. 33, comma 5, della legge 5 febbraio 1992 n. 104, il diritto del genitore o del familiare lavoratore che assiste con continuità un handicappato di scegliere la sede lavorativa più vicino al proprio domicilio e di non essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso non si configura come un diritto assoluto o illimitato perché detto diritto può essere fatto valere allorquando - alla stregua della regola di un equo bilanciamento tra i diritti, tutti con rilevanza costituzionale - il suo esercizio finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive o organizzative del datore di lavoro e per tradursi - soprattutto nei casi in cui si sia in presenza di rapporti di lavoro pubblico - con l'interesse della collettività”.
Suprema Corte di Cassazione, sezione unite civili, sentenza n. 7945 del 27 marzo 2008