Minacciare un dipendente integra il reato di estorsione
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Le minacce registrate sono valevoli a tutti gli effetti di legge
Roma, 30 settembre ’10 (Fuoritutto) Lo scorso 31 agosto, con sentenza n. 32525, la VI sezione penale della Corte di Cassazione, ha stabilito che commette il reato di estorsione il datore di lavoro che prospetti ad un suo dipendente la perdita del posto, nel caso in cui questi non accetti una retribuzione inferiore a quanto indicato nella busta paga. Inoltre, sempre in base a quanto disposto dagli ermellini, risulta riconducibile alla fattispecie dell' “estorsione” anche l'imposizione, da parte dell’imprenditore nei confronti del dipendente, di apporre la propria firma su lettere di dimissioni in bianco onde evitare le disposizioni legislative dettate in tema di ‘preavviso al licenziamento’.
Con questa sentenza i giudici di Piazza Cavour hanno, pertanto, confermato il già consolidato orientamento giurisprudenziale in virtù del quale la condotta del superiore gerarchico che approfitti delle difficoltà economiche o della situazione precaria del mercato del lavoro per ottenere il consenso dei subordinati e contestualmente indurli a subire condizioni di lavoro deteriori rispetto a quelle previste dall'ordinamento giuridico non può in nessun caso essere legittimata e ricondotta "alla normale dinamica di rapporti di lavoro".
Invero, la suddetta attività minatoria in danno di lavoratori dipendenti si scontrerebbe anche con le garanzie che la Costituzione della Repubblica pone a tutela della libertà, della dignità e dei diritti di chi lavora.
Attraverso questo provvedimento, la Suprema Corte, ha precisato che affinchè si configuri la fattispecie criminosa dell’”estorsione” è sufficiente che la minaccia, intesa quale elemento costitutivo del reato in oggetto, sia idonea a far sorgere il timore di subire un concreto pregiudizio.
(Angela Arena)